Il referendum sulle trivellazioni, brevi considerazioni sulle fonti normative

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Il referendum sulle trivellazioni, brevi considerazioni sulle fonti normative

Dallo “sblocca Italia” del 2014 alla “legge di Stabilità” 2016

In vista del referendum del 17 aprile che ha assunto un’inattesa valenza politica dopo lo scoppio della vicenda Tempa Rossa e le code polemiche delle dimissioni del ministro Guidi, l’avv. Bonaventura Sorrentino dello studio legale tributario Sorrentino-Pasca-Toma si sofferma sulle fonti normative da cui sono scaturiti i sei quesiti alla fine ridotti a uno solo. Con una serie di considerazioni sulle posizioni dei promotori del referendum e dei sostenitori del No.

Le norme contestate

La proposta referendaria prende piede dalla conversione in legge del decreto n. 133 del 12 settembre 2014, meglio conosciuto con la denominazione di “decreto sblocca Italia” convertito, con modificazioni, nella legge n. 164/2014 che, al capo IX (Misure urgenti in materia di energia), introduceva agli articoli 37 e 38 novità con riferimento alle misure di approvvigionamento del gas naturale e di valorizzazione delle risorse energetiche nazionali.

In particolare, le fonti normative richiamate riconoscevano alla attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi lo status giuridico di “interesse strategico, pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità”; stabilendo che i relativi decreti autorizzativi comprendessero appunto la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell’opera.

Il comma quinto dell’articolo 38 richiamato, stabiliva altresì che le attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi fossero svolte a seguito di rilascio di un titolo concessorio unico, sulla base di un programma generale di lavori articolato in una prima fase di ricerca, per la durata di sei anni, prorogabile due volte per un periodo di tre anni nel caso fosse necessario completare le opere di ricerca, a seguito delle quali, in caso di rinvenimento di un giacimento riconosciuto coltivabile da parte del Ministro dello Sviluppo economico, farebbe seguito la fase di coltivazione per la durata di trenta anni, da prorogare per una o più volte per un periodo di dieci anni, ove siano stati adempiuti gli obblighi derivanti dal decreto di concessione.

Il titolo concessorio andava accordato con decreto del Ministero dello Sviluppo economico.

Il comma quattro dello stesso articolo stabiliva, per i procedimenti di valutazione di impatto ambientale in corso presso le Regioni alla data di entrata in vigore del decreto, relativi alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, che la Regione presso la quale fosse stato avviato il procedimento concludesse lo stesso entro il 31 dicembre 2014 e decorso inutilmente tale termine, la Regione trasmettesse la relativa documentazione al ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare per i seguiti istruttori di competenza, dandone notizia al ministero dello Sviluppo economico.

Tali disposizioni venivano interpretati da talune Regioni come una forma di imposta subordinazione ai poteri centrali e dunque un depauperamento delle funzioni regionali non in linea con i principi di legislazione concorrente tra Stato e Regione.

Il 10 gennaio 2015, sette Regioni (Abruzzo, Calabria, Campania, Lombardia, Marche, Puglia e Veneto) impugnavano innanzi alla Corte Costituzionale la legge 164 per la parte che regolamentava la materia energetica.

Tutto ciò considerando anche la legge di Stabilità 2015 che, all’art.1, comma 554, andava a modificare il comma 1 bis dell’art. 38 della legge “Sblocca Italia” prevedendo che il ministro dello Sviluppo economico, con proprio decreto, sentito il ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, predisponesse un “Piano delle aree” in cui fossero consentite le attività di ricerca e di estrazione degli idrocarburi liquidi e gassosi, piano da adottare previa intesa con la Conferenza Unificata.

In sintesi i ricorrenti eccepivano che in caso di mancato raggiungimento di una intesa, la legge di Stabilità estendesse espressamente la disciplina semplificata prevista dalla legge n. 239/2004, che regolamenta la mancata espressione da parte delle Amministrazioni Regionali degli atti di assenso o di intesa.

Nello specifico veniva poi previsto che se non si fosse arrivati ad una intesa attraverso la Conferenza Unificata entro 150 giorni, il Ministro dello Sviluppo Economico avrebbe accordato alla Conferenza ulteriori 30 giorni ed in caso di esito negativo, il Ministero avrebbe rimesso gli atti alla Presidenza del Consiglio che, entro i 60 giorni successivi, avrebbe assunto unilateralmente la decisione.

Le finalità delle Regioni

Da parte delle Regioni si contestava l’assimilazione della “mancata espressione dell’intesa” al “mancato raggiungimento della intesa”, epilogo già ritenuto illegittimo, secondo i ricorrenti, dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 239/2013.

A settembre del 2015 i rappresentanti dei Consigli Regionali di dieci Regioni (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) depositavano in Cassazione sei quesiti referendari contro le trivellazioni entro le 12 miglia dalla costa e dal territorio.

I sei quesiti sostanzialmente chiedevano l’abrogazione di un articolo dello “Sblocca Italia” e di cinque articoli del Decreto Sviluppo.

In sintesi, il primo riguardava l’articolo 35 del Decreto Sviluppo e gli altri cinque vertevano sul procedimento introdotto dal “Decreto Sblocca Italia”, dei quali tre sull’articolo 38 , uno sul Decreto Semplificazioni del 2012 ed uno sulla legge numero 239 del 2004, che al Decreto Sblocca Italia si collega in tema di attività estrattive di idrocarburi ed energetiche.

La finalità è quella di non consentire trivellazioni entrò le 12 miglia dalla costa ed il ripristino dei poteri delle Regioni e degli enti locali coinvolti.

In coerenza con tale disegno la Regione Abruzzo con la legge regionale n. 29 del 14 ottobre 2015, vietava le trivellazioni in Adriatico “a tutela dell’ambiente e dell’ecosistema della costa”.

Il Consiglio dei ministri impugnava la legge regionale, ritenendo che il provvedimento disponesse il divieto delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare, invadendo materie di esclusiva competenza statale ed in violazione degli articoli 3, 5, 97, 117 terzo comma e 118 della Costituzione.

Ciò in quanto la legge regionale richiamata vietava le attività citate nelle zone di mare poste entro 12 miglia marine dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero della regione Abruzzo.

Il divieto riguardava anche i procedimenti autorizzatori e le concessioni in corso alla data di entrata in vigore della legge, finalizzati al rilascio di titoli abilitanti per l’esercizio di attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi gassosi nonché i procedimenti autorizzatori e le concessioni conseguenti e connesse.

Veniva fatta salva l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati alla data di entrata in vigore della legge che viene prevista per il giorno successivo a quello della sua pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione Abruzzo.

Il Governo a seguito del posizionamento delle Regioni ha approvato un emendamento alla legge di Stabilità 2016 che modifica talune norme oggetto dei sei quesiti referendari presentati.

In particolare, il comma 239 della legge 28 dicembre 2015, n. 208, sostituendo il secondo e terzo periodo dell’art. 6, comma 17, del decreto legislativo 3 aprile 2006 n.152, statuisce: “Il divieto è altresì stabilito nelle zone di mare poste entro le 12 miglia dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette. I titoli abilitati già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”.

Sostanzialmente la legge di Stabilità, entrata in vigore il primo gennaio scorso, modifica sensibilmente la normativa in materia di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi, confermando il divieto nelle zone di mare poste entro le 12 miglia dalle linee di costa lungo l’intero perimetro costiero nazionale.

Le novità della legge di Stabilità

Va chiarito che l’effetto delle modifiche riguarda la conferma dei soli titoli abilitanti già rilasciati in queste aree per la durata della vita utile del giacimento.

Si tratta solo dei 21 impianti esistenti che ricadono nel raggio delle 12 miglia della costa. Dunque i titoli abilitati già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia dell’ambiente.

Alla luce delle modifiche prodotte, inoltre, le attività petrolifere non sono più considerate opere strategiche, indifferibili ed urgenti, ma “opere di pubblica utilità”, viene altresì meno il “vincolo preordinato all’esproprio” già a partire dalla fase di ricerca di idrocarburi ed è fatto salvo il diritto di proprietà del privato sulle aree interessate.

Inoltre uno degli emendamenti ripristina il limite delle dodici miglia anche per le licenze di trivellazioni concesse prima del 2010.

Il Governo non interviene però sulla limitazione della durate delle concessioni in mare ed ha soppresso la norma che prevedeva il piano delle aree.

Sostanzialmente si rendevano inutili parte dei quesiti presentati.

Posizioni contrastanti e divergenti hanno riguardato i decreti n. 175 e n. 176, pubblicati sul Bollettino Ufficiale degli idrocarburi con riferimento alla collocazione di specifiche attività al largo della costa delle Tremiti ed in Abruzzo.

La Corte Costituzionale si esprimeva positivamente sulla validità dell’unico quesito referendario rimasto dopo il varo della Legge di Stabilità 2016.

Il referendum in questione riguarda la durata delle autorizzazioni a trivellare; in tal senso va chiarito che attualmente il permesso a trivellare vale per l’intera vita del giacimento ed i referendari chiedono di cancellare tale automatismo e consentire l’attività estrattiva solo fino alla durata della Concessione.

La questione di fondo, avendo sterilizzato con la legge di Stabilità buona parte dei quesiti referendari, è che il Governo ha lasciato intatto il cardine dello Sblocca Italia che di fatto sembrerebbe ridimensionare il ruolo degli enti locali, regioni comprese, dalle decisioni sui temi energetici considerati strategici e dunque ad esclusivo appannaggio del governo centrale.

Per completezza di informazione va detto che la Regione Abruzzo si sfilava dal referendum contro le trivellazioni affiancandosi alla posizione governativa.

Con il referendum proposto viene dunque chiesto agli elettori di abrogare la norma che consente alle società impegnate nella ricerca e nella produzione di idrocarburi liquidi e gassosi (soprattutto metano) nel mare italiano di proseguire la loro attività oltre la scadenza della concessione ottenuta dal Governo.

Va chiarito che le leggi in vigore vietano la costruzione di nuovi impianti entro le 12 miglia ma consentono agli impianti già esistenti lo sfruttamento del giacimento per un periodo indeterminato.

Le posizioni in campo

Un referendum che vede contrapporsi posizioni che tengono conto di esigenze tutte meritevoli di tutela coinvolgendo da un lato la tutela dell’ambiente e la pretesa da parte delle Regioni e degli enti locali di avere voce in capitolo in termini di controllo, dall’altro lato i legittimi interessi degli investitori orientati ad una attività imprenditoriale in una globalizzazione evoluta.

Con riferimento alla posizione dei promotori del referendum, essa si focalizza dunque principalmente su due esigenze: la prima sembra riguardare la tutela delle acque e dell’ambiente circostante le piattaforme che, a parere di questi ultimi, potrebbe essere gravemente compromessa da forme di inquinamento, andando ad incidere pesantemente anche sul flusso turistico di intere zone che hanno investito sulla c.d. blue-economy, mirando oltre che alla conservazione dell’ambiente alla sostenibilità dell’ecosistema; la seconda inerisce la necessità che venga riconosciuto alle Regioni ed agli enti locali coinvolti forme dirette di controllo delle concessioni nonché nelle procedure di dismissione che si ritiene debbano avvenire allo scadere delle concessioni.

La possibilità di poter operare oltre il termine delle concessioni così come attualmente previsto, darebbe la possibilità ai petrolieri, secondo la tesi sostenuta dai promotori del referendum, di poter decidere a piacimento quando investire le ingenti somme necessarie per la chiusura di un pozzo.

Infine, per completezza di informazione, va detto che viene da taluni di essi richiamata la Direttiva Comunitaria offshore in materia di sicurezza che a loro parere, prevederebbe un termine di durata delle concessioni esponendo, in caso contrario, l’Italia a rischio di una procedura di infrazione. Non ci sembra che la direttiva stabilisca specificamente tale possibilità, interpretazione che potrebbe forse intendersi alla luce di una interpretazione estensiva della direttiva richiamata.

In contrapposizione a tali tesi, tecnici ed esperti del settore contrari alla abrogazione e dunque sostenitori del No referendario, sostengono che chiudere una piattaforma prima dell’esaurimento della vena petrolifera o gassosa, oltre ad essere estremamente onerosa, comporterebbe reali rischi di inquinamento che sarebbero sensibilmente ridotti con la chiusura ad esaurimento della risorsa.

Una ulteriore considerazione inerisce l’approvvigionamento energetico nazionale che consentirebbe all’Italia un risparmio di circa 4,5 miliardi di euro l’anno, garantendo diverse migliaia di posti di lavoro.

Sostengono inoltre che la necessità di una energia pulita (il gas metano) non esclude la incentivazione alle energie rinnovabili ed i relativi investimenti in tecnologia, innovazioni e nuovi stili di consumo. Inoltre, a parere di chi si contrappone alla richiesta referendaria, proprio le norme sulla sicurezza vigenti per le piattaforme, hanno garantito in tutti questi anni il controllo sull’inquinamento delle acque, facendo le piattaforme parte, in taluni casi, di un parco marino.

Forse, a modesto parere dello scrivente, la giusta via è quella di una strategia complessiva orientata sinergicamente sia alle innovazioni energetiche ed alla tutela ambientale che ad un forma di emancipazione industriale in coerenza con i cambiamenti e gli interesse collettivi.

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