Robin Tax: giustizia è fatta… a metà

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Nella nota che segue l’avv. Bonaventura Sorrentino dello studio legale e tributario Sorrentino-Pasca-Toma analizza i contenuti della sentenza con cui il 9 febbraio la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della Robin Tax in vigore in Italia dal giugno 2008 (v. Staffetta 12 e 13/02) e si sofferma sulle motivazioni che hanno portato alla decisione dell’irretroattività e le questioni che rimangono aperte.

Ho sempre ritenuto (e credo di averlo anche scritto), che la Robin Tax fosse diventata un atto di arroganza del legislatore e dell’Amministrazione Finanziaria; più che un nodo giuridico da sciogliere, un diritto, addirittura Costituzionale, del contribuente da far valere.

Un onere tributario, nato con la caratteristica della provvisorietà, ma fatto ricadere definitivamente su una categoria di imprenditori, in mancanza del rispetto dei principi giuridici e normativi che regolamentano l’imposizione fiscale.

Mi sento di poter semplicemente asserire che questa sentenza ha fatto giustizia con riferimento ad una forma di imposizione tributaria palesemente “forzata” e dettata esclusivamente da esigenze di bilancio dello Stato.

Certo resta l’amarezza della irretroattività degli effetti della sentenza che non cancella i danni fatti …. una incostituzionalità “part time” (dettata dal principio dell’equilibrio del bilancio dello Stato e della sostenibilità del debito di cui, in combinato disposto, agli articoli 81 ed 97 della Costituzione) che, rende questa sentenza, sotto certi aspetti, storica.

Più chiaramente, la irretroattività nella applicazione della sentenza, è conseguenziale alla applicazione alla stessa di quanto disposto dagli articoli 81 e 97 della Carta Costituzionale: l’articolo 81, sostituito dalla legge costituzionale del 20 aprile 2012, n.1, rubricata “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta Costituzionale”, le cui disposizioni si applicano a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014, stabilisce: “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali…”. Cosi come, l’articolo 97 della Costituzione, con la stessa valenza temporale di applicazione, stabilisce “… Le Pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’Ordinamento dell’Unione Europea, assicurano l’equilibrio del Bilanci e la sostenibilità del debito pubblico “.

Dunque niente rimborsi, in quanto onere non sostenibile per il bilancio dello Stato.

Ma andiamo per gradi.

La Robin Tax era stata introdotta con l’obiettivo di contenere i profitti di congiuntura in un contesto di prezzi alti del petrolio.

Una “addizionale” Ires, nata dunque per fronteggiare una congiuntura economica eccezionale, si era invece trasformata in una imposizione fiscale strutturale e definitiva, nonostante il ministro Tremonti nel commentare il nuovo tributo avesse dichiarato“… fatti straordinari richiedono interventi straordinari”.

Va considerato che la Robin tax ha consentito allo Stato, nel solo 2014, sul bilancio 2013, di incassare circa un miliardo di euro dalle società energetiche, ed ha generato cinque miliardi di euro.

Attenendoci ai dati della Autorità per l’Energia che, tra il 2008 ed il 2012, ha monitorato circa 450 operatori, le risultanze dell’indagine evidenziano che “… La Robin tax ha fruttato in quel periodo 4,9 miliardi. In particolare a inizio 2014, la maggiorazione Ires introdotta ha determinato nel biennio 2011 e 2012 un gettito stimato di oltre 2,8 miliardi di euro, dei quali 2,4 da imposte del settore elettrico e del gas e circa 400 milioni da società petrolifere”.

Il giudizio di legittimità costituzionale ha riguardato proprio la dura regolamentazione riportata all’articolo 81, commi 16, 17 e 18 del decreto legge 25 giugno 2008 n. 112, rubricato “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, per violazione degli articoli 3, 23, 41, 53, 77, e 117 della Costituzione.

Le motivazioni del giudizio

Entrando nel merito della regolamentazione della maggiore imposta in questione, il comma 16 della fonte normativa richiamata, in considerazione dell’andamento dell’economia e dell’impatto sociale dell’aumento dei prezzi e delle tariffe del settore energetico, prevedeva l’applicazione all’aliquota Ires di un’addizionale di 5,5 punti percentuali per i soggetti che avessero conseguito nel periodo di imposta precedente un volume di ricavi superiore a 25 milioni di euro e che operassero nei settori: a) della ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi, b) della raffinazione del petrolio, produzione o commercializzazione di benzine, petroli, gasolio per usi vari, oli lubrificanti e residuati, gas di petrolio liquefatto e gas naturale; c) nel settore della produzione o commercializzazione di energia elettrica.

Con riferimento ai soggetti operanti anche in settori diversi da quelli citati, l’addizionale si sarebbe applicata qualora i ricavi relativi ad attività riconducibili ai predetti settori fossero stati prevalenti rispetto all’ammontare complessivo dei beni conseguiti. La disposizione non andava applicata ai soggetti che producevano energia elettrica mediante l’impiego prevalente di biomasse e di fonte solare – fotovoltaica o eolica. Va detto che già la formulazione della norma, per il suo contenuto è stata oggetto di questioni esegetiche.

Con riferimento alla sua decorrenza, il comma 17 richiamato, la rendeva applicabile dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007.

Il disposto del comma 18, dettava il divieto per gli operatori economici dei settori richiamati di traslare l’onere della maggiorazione di imposta sui prezzi di consumo. Sostanzialmente non era consentito il ribaltamento ed in tal senso era previsto un controllo da parte della Autorità per l’energia elettrica ed il gas; anche quest’ultima disposizione è stata oggetto di attenzione e discussione, considerate le difficoltà di una incisiva verifica in tal senso.

Proprio le modalità di introduzione della norma, le sue originarie finalità ed il contenuto, motivavano la promozione di un giudizio di legittimità costituzionale, con riferimento al rispetto dei principi dettati dalla Carta Costituzionale e più specificamente: il principio della pari dignità sociale ed eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3); quello secondo cui nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge (art.23); il principio della libertà della iniziativa economica privata (art.41); la capacità ed i limiti di legiferare del Governo (art.77); il principio della potestà legislativa dello Stato e delle regioni.

Le doglianze sollevate

In particolare, nelle ritualità procedurali di legge, da parte di una Commissione tributaria che aveva assunto la questione come rilevante nel giudizio e della società interveniente, venivano formalizzate innanzi alla Consulta le seguenti principali considerazioni di diritto che riportiamo sinteticamente:

A) L’addizionale Ires in questione, imposta per un tempo illimitato, acquisisce la natura di un tributo autonomo ed ordinario, tale da incidere strutturalmente nell’ordinamento tributario, così da escludere che si tratti di una misura straordinaria e temporanea adottata a fronte di una situazione eccezionale verificatasi nel mercato degli idrocarburi liquidi e gassosi.

Tale contraddizione accentuava una discrepanza per il crollo delle quotazioni del greggio, determinatosi subito dopo l’adozione del decreto, che appunto farebbe venir meno la sussistenza della necessità di colpire profitti straordinari in ragione dell’andamento del mercato nel settore dei prodotti petroliferi.

Ne deriverebbe la carenza dei presupposti di necessità ed urgenza, che giustificano lo strumento del decreto legge con l’ulteriore conseguenza che il contribuente sarebbe stato gravato da una prestazione non imposta dalla legge, contrariamente a quanto previsto dall’art. 23 della Costituzione.

B) La norma palesa, secondo le eccezioni in ricorso, una violazione degli articoli 53 e 3 della Costituzione in quanto in contrasto con il disposto costituzionale secondo cui un’imposta può considerarsi legittima se incide su situazioni indici di capacità contributiva ed inoltre, la sua struttura, deve rispondere a parametri di ragionevolezza, congruità, coerenza e proporzionalità.

Sostanzialmente si riteneva mancante, con riferimento alla imposizione oggetto di ricorso, il fatto indice di capacità contributiva, non sussistendo l’asserito rialzo straordinario dei profitti della filiera dei prodotti petroliferi.

Un ulteriore motivo di violazione riguardava il presupposto dell’addizionale ed il relativo prelievo, che non venivano espressi secondo gli stessi criteri attributivi di valore, in quanto si andava a colpire l’intero reddito e non solo gli extra – profitti e dunque: irragionevolezza, incongruità e sproporzione della struttura della imposta.

C) Veniva stabilito un ingiustificato aggravio impositivo a carico delle sole imprese operanti nel settore degli idrocarburi, assimilando in modo ingiustificato i produttori di greggio ai distributori che da loro acquistano, mentre solo i primi aumentano i ricavi in caso di aumento del prezzo del petrolio.

D) Il divieto di traslazione determinerebbe una discriminazione, in prima istanza tra le imprese assoggettate all’addizionale rispetto alle altre e poi, all’interno di quelle assoggettate, tra i produttori e distributori in quanto solo i secondi incorrono nel divieto e sono costretti ad onerose pratiche contabili per dimostrare la mancata traslazione.

E) Viene rappresentato che la norma renderebbe più onerosa l’iniziativa economica, tutelata dall’art.41 della Costituzione, per le imprese impegnate nel mercato degli idrocarburi e tra queste, per le imprese distributrici rispetto a quelle produttrici, in quanto solo i produttori sono in grado di influire sul meccanismo di formazione dei prezzi, con conseguente disparità di trattamento.

F) Il divieto di traslazione degli oneri relativi all’addizionale realizza una parziale fissazione autoritativa del prezzo, alterando il funzionamento della libera concorrenza.

G) Veniva rimarcata l’impossibilità di identificare la ratio dell’addizionale nel conseguimento di presunti sovra profitti da parte dei soggetti colpiti; in quanto considerando il novero dei soggetti incisi, la base imponibile (costituita dall’intero reddito) e la durata permanente della nuova misura impositiva non può far ritenere l’addizionale idonea a colpire un’entità economica tanto aleatoria, transitoria e marginale quale sarebbe il preteso sovrareddito; ciò anche in considerazione del fatto che l’indice di manifestazione della capacità contributiva è il reddito e non la redditività espletata.

H) Hanno rilievo le significative modifiche all’addizionale, che hanno ampliato l’ambito soggettivo di applicazione e aumentato l’aliquota per i soli tre periodi di imposta successivi.

Si costituiva in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri eccependo sostanzialmente:

– che le modifiche apportate alla disciplina rendevano necessaria la restituzione degli atti al giudice rimettente affinché valutasse la persistente rilevanza del presupposto impositivo;

– l’inammissibilità delle questioni sollevate per difetto di motivazione sulla rilevanza e sulle ragioni fondanti le censure, dal momento che il giudice rimettente si sarebbe limitato a condividere quanto affermato dal ricorrente.

Fatte queste brevi e sintetiche premesse è da considerare illuminante l’articolazione della sentenza n. 10/2015, decisa il 9 febbraio 2015 e pubblicata il giorno 11 febbraio 2015, con riferimento, alle violazioni degli articoli della Carta Costituzionale oggetto di ricorso.

L’articolazione della sentenza

Più specificamente la Corte Costituzionale si è espressa ritenendo infondate le questioni sollevate in relazione agli articoli 77, secondo comma, e 23 della Costituzione, incentrate sull’illegittimo utilizzo del decreto legge.

La Corte ha infatti chiarito che il sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge, va comunque limitato ai casi di “evidente mancanza” dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza, richiesti dall’articolo 77, secondo comma, della Costituzione o di “manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della relativa valutazione”. A parere della Consulta la notoria situazione di emergenza economica posta a base del censurato d.l. n. 112 del 2008, consente di escludere che esso sia stato adottato in una situazione di evidente mancanza dei requisiti di necessità ed urgenza. La sentenza chiarisce sul punto che le impugnate disposizioni, in quanto hanno introdotto un’“addizionale” per reperire nuove entrate al fine di fronteggiare la predetta emergenza e ridistribuire la pressione fiscale, risultano coerenti con le finalità del provvedimento e con i presupposti costituzionali su cui esso si fonda.

Con riferimento poi alla riserva di legge, di cui all’articolo 23 della Costituzione, la Consulta la ritiene soddisfatta anche da atti aventi forza di legge, come accade in riferimento a tutte le riserve contenute in altre norme costituzionali, comprese quelle relative ai diritti fondamentali e salvo quelli che richiedono atti di autorizzazione o di approvazione del Parlamento. In considerazione del fatto che i decreti -legge e i decreti legislativi sono fonti del diritto con efficacia equiparata a quella della legge parlamentare e sia perché nel relativo procedimento di formazione è assicurata la partecipazione dell’organo rappresentativo, rispettivamente in sede di conversione e in sede di delega. Di conseguenza, secondo la Corte Costituzionale, il parametro evocato, cui va fatto riferimento, risulta rispettato anche quando la disciplina impositiva sia introdotta con un decreto legge, purché ciò avvenga nel pieno rispetto, come nel caso in questione, dei presupposti costituzionalmente prevalenti.

La Corte ritiene invece fondata, entro limiti definiti, la questione sollevata in riferimento al rispetto della norma in questione in materia di Robin tax, del principio di pari dignità ed eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art.3) ed al dettame costituzionale, secondo il quale tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva (art.53).

La Corte nel richiamare l’ordinanza, ne elenca le considerazioni esplicitate, ravvisabili:

a) nel fatto che l’ “addizionale” impugnata determina una discriminazione qualitativa dei redditi, arbitraria, per il fatto che essa si applica, senza adeguata giustificazione, solo ad alcuni soggetti economici operanti nel settore energetico e degli idrocarburi;

b) inoltre, nonostante l’intento del legislatore fosse quello di colpire i “sovra-profitti” conseguiti dai soggetti innanzi richiamati in una data congiuntura economica, in realtà la struttura della nuova imposta non sarebbe coerente con tale ratio giustificatrice; infatti la base imponibile sarebbe costituita dall’intero reddito e la durata permanente, in quanto non appare in alcun modo circoscritta ad uno o più periodi di imposta, né risulta ancorata al permanere della situazione congiunturale, che tuttavia è addotta come sua ragione.

La Corte Costituzionale ne fa dunque derivare che le censure interessino il citato articolo 81, commi 16, 17, 18 anche nel testo risultante dalle successive modifiche legislative, laddove l’imposizione oggetto del giudizio, che già in origine era stata istituita senza limiti di tempo, è stata poi stabilizzata, accentuando gli aspetti su cui si fondano le doglianze.

Per questi aspetti, sinteticamente, la sentenza in esame, ha identificato il vizio di irragionevolezza:

a) nella configurazione del tributo in esame come maggiorazione di aliquota che si applica all’intero reddito di impresa, anziché ai soli sovra-profitti;

b) nell’assenza di una delimitazione del suo ambito di applicazione in prospettiva temporale o di meccanismi atti a verificare il perdurare della congiuntura economica che ne giustifica l’applicazione;

c) nella impossibilità di prevedere meccanismi di accertamento idonei a garantire che gli oneri derivanti dall’incremento di imposta non si traducano in un aumento di prezzi al consumo.

A seguito di tali considerazioni, più ampiamente esplicitate, la Corte Costituzionale dichiara: “Per tutti questi motivi, la maggiorazione dell’IRES applicabile al settore petrolifero e dell’energia, così come configurata dall’art. 81, commi 16, 17 e 18 del d.l. n. 112 del 2008, e successive modificazioni viola gli articoli 3 e 53 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità, per incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo, in se e per se legittimo, perseguito…”.

Il nodo dell’irretroattività

Ma nel pronunciare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate, la Corte Costituzionale sottolineava il suo ruolo di custode della Costituzione nella sua integrità e dunque il compito di evitare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge potesse determinare, paradossalmente, effetti ancor più incompatibili con la Carta Costituzionale di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina legislativa.

Secondo la Consulta “… nella fattispecie l’applicazione retroattiva della presente declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe anzitutto una grave violazione dell’equilibrio di bilancio ai sensi dell’art. 81 della Costituzione …. come questa Corte ha affermato già con la sentenza n. 260 del 1990, tale principio esige una gradualità nell’attrazione dei valori costituzionali che imponga rilevanti oneri a carico del bilancio statale. Ciò vale a fortiori dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale del 20 aprile 2012 n. 1 (introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta Costituzionale) che ha affermato il necessario rispetto dei principi di equilibrio del bilancio e di sostenibilità del debito pubblico (sentenza n. 88 del 2014). L’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 81, commi 16, 17 e 18 del d.l. n. 112 del 2008, e successive modificazioni determinerebbe, infatti uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venir meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale (artt. 11 e 117, primo comma della Cost.) e, in particolare delle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata considerata a regime”.

E’ del tutto evidente che questa sentenza ha il suo fondamento nella recente regolamentazione costituzionale dell’equilibrio del bilancio e di sostenibilità del debito pubblico che affrancano lo Stato dall’obbligo di rimborsare il maltolto, contrariamente non avrebbe visto luce!

La Corte intravede inoltre come conseguenze complessive della rimozione con effetto retroattivo della normativa impugnata, in un periodo come quello attuale di perdurante crisi economica e finanziaria che pesa sulle fasce più deboli, una irragionevole ridistribuzione della ricchezza a vantaggio degli operatori economici che possono aver invece beneficiato di una congiuntura favorevole.

Alla luce delle considerazioni innanzi riportate la Corte Costituzionale fa ricadere gli effetti della dichiarazione di illegittimità a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Questioni aperte

Riesce già abbastanza difficile condividere la richiamata sentenza n. 260 del 1990, laddove si sostiene la gradualità nell’attrazione dei “valori costituzionali” che imponga rilevanti oneri a carico dello Stato, laddove valgono per valori costituzionali i diritti del cittadino a fronte di un sostanziale indebito arricchimento dello Stato.

Non è altresì pienamente condivisibile la motivazione della irretroattività della efficacia della sentenza per la parte in cui si esprime ritenendo “… le conseguenze complessive della rimozione con effetto retroattivo della norma impugnata finirebbero per richiedere, in un periodo di perdurante crisi finanziaria che pesa sulle fasce più deboli, una irragionevole ridistribuzione della ricchezza a vantaggio di quegli operatori economici che possono invece avere beneficiato di una congiuntura favorevole”. E’ un’asserzione che si potrebbe ritenere contraddittoria proprio con le motivazioni di incostituzionalità in riferimento ai presupposti originari che l’hanno generata, anche se appunto modificatisi nel tempo; così come riesce difficile identificare “una irragionevole distribuzione di ricchezza”, a fronte di un riconosciuto maltolto da parte dello Stato.

Senza parlare del “fronte” operativo che l’articolo 97 apre con riferimento ad azioni collettive di recupero nei confronti della Pubblica Amministrazione, con il rischio concreto di dover ripercorrere a fortiori ogni grado di giudizio e soprattutto capire quanto questa norma possa incidere ed in quale cornice sui diritti acquisiti e riconosciuti innanzi alla giustizia ordinaria.

Ai posteri l’ardua sentenza!

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